1104 pagine strazianti
03 Luglio 2017

Si intitola “Una vita come tante”, Sellerio editore, ma la vita di Jude St.Francis non è proprio una vita ordinaria. Abbandonato appena nato in un cassonetto, viene “salvato” dai frati e portato in un monastero dove non si conosce la pietà né la compassione. L’orfano viene punito, picchiato e violentato dai frati appena assume la posizione eretta, e insultato e frustato sadicamente dai più perversi. A otto anni pensa bene di fuggire con il frate che gli sembra il meno peggio di quella congregazione, che in effetti a differenza degli altri non lo picchia e non lo insulta, ma che lo violenterà e lo farà prostituire per svariati anni. Quando la polizia scoprirà questo traffico di pedofili, il buon frate si impiccherà e il nostro Jude finirà in orfanotrofio, dove non sarà trattato meglio, e anzi gli abusi continueranno da parte degli educatori e degli inservienti dell’istituto. Quando finalmente riuscirà a fuggire, approfittando del torpore ubriaco di un addetto che dopo il sesso si è appisolato sul suo gracile corpo, Jude finirà sulla strada, e si farà trasportare da camionisti che in cambio del passaggio gli chiederanno ovviamente altre prestazioni sessuali. Quando si prende una bella malattia venerea e si accascia stremato vicino a una pompa di benzina a caricarlo sulla sua auto sarà un dottore, ma l’opera di bene non sarà gratuita. Il buon dottore lo segregherà e dopo averlo curato dall'infezione lo violenterà e frusterà e sevizierà. Ancora e ancora. Può bastare? Macchè, siamo solo ai primi 15 anni del nostro eroe: poi arriverà una nuova fuga, inseguito dal dottore che gli passerà sopra letteralmente con il furgone, spezzandogli la spina dorsale, e il ricovero in ospedale. Da lì una sorta di rinascita, il college, gli amici, dei genitori adottivi, mentre la personalità di Jude è talmente scossa e segnata che per trovare sollievo non fa che tagliuzzarsi e scagliarsi contro muri. Un’agonia, davvero, insopportabile. Non vi dico come finirà, anche se potrete forse immaginarlo. 

Sangue, lacrime, violenze e tormenti per oltre mille pagine in questa opera ipnotica e sfinente di Hanya Yanagihara, un mattone di 1 chilo e duecento grammi che vi faranno piangere e soffrire quanto il protagonista. Io me la sono sciroppata tutta in quindici giorni, chiedendomi di quando in quando che senso avessero le descrizioni così minuziose delle violenze, e se un libro dovesse per forza dare tutti questi dettagli dell’orrore per parlare di questi argomenti.

Alla fine, stremata e quasi infastidita, ho chiuso il mega tomo e mi sono detta che no, che sarebbe bastato un quarto di testo e la metà dell’agonia per offrire comunque uno spaccato credibile su questi temi. 

Sono andata a cercare su internet qualcosa sull’autrice, e ho scoperto che questo libro è stato ispirato da una serie di fotografie raccolte negli anni, e che lei lo ha scritto in 18 mesi, come in preda a una febbre. E tutto, anche secondo la critica, è esagerato: i sentimenti, le vergogne, le digressioni, lo squallore. È stato comunque un successo mondiale: vincitore del Kirkus Prize, finalista al National Book Award e al Booker Prize, tra i migliori libri dell’anno per il New York Times, The Guardian, The Wall Street Journal, Huffington Post, The Times. Come nel suo primo libro, The People in the Trees, il motore della tragedia sono gli abusi sui bambini: «A interessarmi è: quali cicatrici lasciano?» dichiara l’autrice. Questo interesse ce l’ho anch’io, e sarà il tema del mio prossimo libro, ma sinceramente penso proprio che lo tratterò in modo completamente diverso. 

In “Una vita come tante” ho trovato un fastidioso voyerismo, un sadico compiacimento, un malato bisogno di choccare  con le più schifose e dettagliate sevizie possibili e immaginabili. Anche no, grazie!

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